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Il privilegio della tomba, un privilegio di cui nessuna persona vivente gode: la libertà di parola.

Chi è in vita non è del tutto privo, a rigore, di un tale privilegio, ma dato che lo possiede solo come mera formalità e sa di non poterne fare uso, non possiamo considerarlo un effettivo possesso. In quanto privilegio attivo, è simile al privilegio di poter commettere un omicidio: si può esercitarlo se si è disposti a sopportarne le conseguenze. L’omicidio è proibito sia formalmente che di fatto; la libertà di parola è formalmente permessa, ma di fatto proibita. Per l’opinione comune sono crimini entrambi, tenuti in grande spregio da tutti i popoli civili. L’omicidio è punito, a volte; la libertà di parola lo è sempre, qualora venga esercitata. Il che avviene raramente. Ci sono non meno di cinquemila omicidi per ogni (impopolare) manifestazione di libera espressione. Questa riluttanza a esprimere opinioni impopolari è giustificata: il prezzo da pagare è assai alto, può comportare la rovina economica di un uomo, può fargli perdere gli amici, può esporlo al pubblico ludibrio e alla violenza, può condannare all’emarginazione la sua famiglia innocente e rendere la sua casa un luogo desolato, disprezzato ed evitato da tutti.

Almeno un’opinione impopolare sulla politica o sulla religione si cela nel petto di ogni uomo e in molti casi se ne trovano ben più di una. Più l’uomo è intelligente, maggiore è la quantità delle opinioni di questo tipo che ha e che tiene per sé. Non c’è individuo che non sia in possesso di convinzioni impopolari che coltiva e accarezza e che il buon senso gli vieta di esprimere. A volte sopprimiamo un’opinione per ragioni che ci fanno onore, non onta, ma più spesso lo facciamo perché non possiamo sostenere l’amaro costo di dichiararla. A nessuno di noi piace essere odiato, a nessuno piace essere evitato. Una naturale conseguenza di questa condizione è che, consciamente o inconsciamente, facciamo più attenzione ad intonare le nostre opinioni a quelle del nostro vicino e a preservare, la sua approvazione, piuttosto che a esaminarle con scrupolo per vedere se siano giuste e fondate.

Questa abitudine produce inevitabilmente un altro risultato: l’opinione pubblica che nasce e si alimenta in questo modo non è affatto un’opinione, è semplicemente un atteggiamento; non suscita riflessioni, è priva di principi e non merita rispetto.

Quando un progetto politico del tutto nuovo e non sperimentato viene presentato alla gente, questa è sorpresa, ansiosa, intimidita e per qualche tempo resta muta, reticente, incapace di schierarsi. La gran parte non studia la nuova dottrina per farsene un’idea, ma aspetta di vedere quale sarà l’orientamento prevalente.

Il movimento antischiavista, quando ebbe inizio nel Nord tre quarti di secolo fa, non suscitò nessuna simpatia. La stampa, il clero e la grande maggioranza delle persone rimasero indifferenti. Questo avvenne per timidezza, per paura di esprimersi e diventare impopolari, non perché si approvasse la schiavitù o non si commiserassero gli schiavi.

(…) È il desiderio di essere come gli altri che porta al successo i partiti politici.

Non c’è – nella maggioranza – un motivo particolarmente elevato per aderire a un partito, a meno che non si ritenga tale, il fatto che ne facesse parte il proprio padre. Il cittadino medio non è uno studioso delle dottrine dei partiti, e a buon diritto: né lui né io saremmo in grado di capirle. Se gli chiedessimo di spiegare in modo dettagliato perché abbia preferito una bandiera a un’altra, il risultato del suo sforzo sarebbe penoso. Lo stesso vale per la questione delle protezioni doganali. Lo stesso vale per qualsiasi altra grande dottrina politica; perché tutte le grandi dottrine politiche sono piene di problemi difficili – problemi molto al di sopra della portata del cittadino medio. E questo non è strano, dato che sono anche al di sopra della portata delle più acute menti del Paese: dopo tanto chiasso e tante chiacchiere, per nessuna di queste dottrine si è potuta fornire la definitiva dimostrazione che fosse quella giusta, la migliore.

Quando un uomo ha aderito a un partito, è probabile che ci rimanga. Se cambia opinione – intendo il modo di sentire, di pensare – è probabile che continui a restarci ugualmente; i suoi amici appartengono a quel partito; terrà quindi per sé il diverso modo di sentire, e sosterrà pubblicamente quel che in privato ha rinnegato. In questo modo, e non in altri, può godere del privilegio (americano) della libertà di parola. Di questi poveretti se ne trovano in entrambi i partiti, ma non è possibile dire in quale proporzione. Perciò non sapremo mai quale partito abbia realmente ottenuto la maggioranza alle elezioni.

La libertà di parola è il privilegio dei morti, il monopolio dei morti. Essi possono dire quel che pensano senza ferire. Noi abbiamo pietà per ciò che i morti dicono. Possiamo disapprovare ciò che dicono, ma non li insultiamo, non li ingiuriamo, sapendo che ora essi non possono difendersi. Se potessero parlare che rivelazioni farebbero! Si scoprirebbe che, in materia di opinioni, nessun defunto è stato ciò che era apparso in vita e che per paura, o per saggio calcolo, o per evitare di ferire gli amici, lui ha a lungo tenuto dentro di sé certi punti di vista non sospettabili dalla sua piccola vita e che se li è portati con sé, inespressi, nella tomba. E allora i vivi, da ciò, sarebbero portati alla struggente e riprovevole considerazione che anch’essi erano sulla stessa barca: realizzerebbero che essi stessi, ed intere nazioni con loro, in fondo, non sono ciò che sembrano e mai lo saranno.

Ora, non c’è quasi nessuno tra di noi che sarebbe disposto a rivelare questi nostri segreti. Sappiamo che non possiamo farlo in vita. Ma allora perché non farlo dalla tomba e prenderci questa soddisfazione? Perché non parlarne nel nostro diario, invece di tralasciarli con discrezione? Perché non scriverli e lasciare poi il diario agli amici?

La libertà di parola è davvero desiderabile. (…) Me ne accorgo particolarmente ogni settimana o due, quando voglio dare alle stampe qualcosa che la discrezione mi direbbe di non pubblicare. A volte i miei sentimenti sono così violenti che devo prendere la penna e riversarli sulla carta per impedire che il loro fuoco si consumi dentro di me; ma tutto quell’inchiostro e quella fatica vanno sprecati, perché non posso pubblicare quel che scrivo.

Ho appena finito un articolo di questo genere, e ne sono molto soddisfatto. Fa bene alla mia anima tormentata leggerlo e considerare i problemi che creerebbe a me e alla mia famiglia. Lo lascerò ai posteri, e lo renderò noto dalla tomba. Lì c’è libertà di parola e non si può far danno alla famiglia.

 (Mark Twain, “Il privilegio dei morti”, 1905)