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Ieri su questo giornale il collega Paolo Franchi ha finalmente ed egregiamente detto quello che si meritava al grande imbonitore del “Porta a Porta” di lunedì sera che, agguantato il boccino di quello che avrebbe dovuto essere un dibattito, lo ha ridotto a monologo, anzi a predica come sempre fa e come sempre ci stupiamo che non si concluda con un “e così sia”, ma lo sottintende, tale è la sicurezza dei suoi dati e preventivi. Confesso che, anche se non vi prendevo parte, ho seguito questa trasmissione con un senso di frustrazione, ma anche di umiliazione per come i miei colleghi giornalisti dovevano subire questa loro retrocessione al rango di comparse o, al massimo, di coristi (ma non da “Va’ pensiero”, perché il pensiero in quei discorsi non trova spazio). E come loro decano, mi sento autorizzato a dire un paio di cose. La prima è che, se anche il piazzista di Arcore ne rappresenta un casolimite, il quaresimale ex cathedra non è una sua esclusiva, a cominciare dall’evanescente Rutelli al quale, per la verità non saprei neppure quali domande rivolgere. Salvo rare eccezioni, gli ometti che popolano questa scena politica da carnevale di Viareggio, si presentano a questi dibattiti in tocco e toga, dimenticando che il loro auditorio è costituito dai portaparola dei loro rappresentanti, cioè dei loro datori di lavoro sotto forma di voti e di “posti”. Quando questo avviene, ed avviene sovente, sta ai giornalisti ricordarglielo, e senza tanti complimenti. Anzi, questo impegno dovrebb’essere messo, per così dire, nero su bianco prima del dibattito, nel senso che il conduttore dovrebbe garantire alla audience di essere pronto a tagliare la parola in bocca a chi ne abusa, chiunque egli sia, gerarca o giornalista. I miei colleghi lo sappiano: ne va non dico del prestigio parola forse troppo grossa ma della credibilità della nostra categoria. O non conta più nemmeno questa? Secondo. Noi sappiamo cosa ci aspetta fra tre o quattro mesi. E la prima delle conseguenze che ne deriveranno sarà la raccolta nello stesso pugno delle sei reti televisive che monopolizzano l’etere italiano: tre a titolo privato, tre a titolo pubblico (e nessuno tenti di muovere obbiezioni a questo discorso perché io lo rivolgo a chi vuole e rispetta la verità, non ai falsari). V’immaginate a quale martellamento saremmo sottoposti per un’intera legislatura (cinque anni), se non prendiamo, o almeno non tentiamo di prendere, qualche precauzione contro gli abusi, di cui saremo le quotidiane vittime fino a non accorgerci più di esserlo diventati? Non azzardo proposte concrete: non ne sono un esperto. Mi limito a rivolgere, da decano, una raccomandazione ai nostri colleghi. Disertate questi dibattiti in cui avete tutto contro, anche i truccatori, anche gli addetti alle luci. In questo Paese il “padrone”, anche quando ancora non lo è, sprigiona un odore inebriante come quello del polline per l’ape. Eppoi perché dobbiamo avere la modestia di riconoscere che noi come venditori, non leghiamo nemmeno le scarpe a un piazzista che se un giorno si mettesse a produrre vasi da notte, farebbe scappare la voglia di urinare a tutta l’Italia.

(Indro Montanelli, dal Corriere della Sera del 15 febbraio 2001)